Da qualche decennio a questa parte, le generazioni più adulte hanno smesso di raccontare storie sia quelle frutto della fantasia sia quelle che i loro avi hanno tramandato di generazione in generazione, per mantenere viva l’identità di una famiglia e le sue radici. E così, in questa memoria ormai logora di cui più nessuno si prende cura, gli adulti, talvolta, si lamentano delle generazioni più giovani, incapaci di ascoltare, di annoiarsi e di trovare una soluzione creativa alla noia. Gli adulti si rammaricano di vedere le nuove leve con le spalle ricurve sul proprio smartphone, completamente inadatte a guardare geograficamente in avanti e, temporalmente, verso il futuro. Questa disamina della realtà contemporanea è solo parzialmente vera. Essa rischia, infatti, di essere priva di radici e, perciò, incapace di portare frutto in azioni e nuove tendenze che possono favorire la nascita di nuovi atteggiamenti che cambino il “corso” della storia. Per evitare, perciò, sterili idealismi e lamentazioni, bisogna mettere in piedi un’analisi della realtà, che abbia radici e memoria. Occorre essere onesti, sia moralmente che intellettualmente, e riconoscere che c’è un filo sottilissimo che lega l’incapacità di guardare al futuro con l’incapacità di raccontare e, in particolare, di raccontare il passato e le nostre origini.

La scienza psicologica contemporanea sottolinea come le storie, talvolta autobiografiche o create individualmente o collettivamente, rappresentano un modo di conoscere il passato, noi stessi e il nostro rapporto con gli altri. Esse servono a dare senso agli eventi che capitano e costruiscono significati e simboli, che vengono trasmessi, di generazione in generazione, per la costruzione del futuro, individuale e collettivo. Occorre riconoscere, però, che questa moderna concettualizzazione, operata sia dalla psicologia che dalla teologia, è il punto di arrivo di un percorso esperienziale ed esistenziale che ha accompagnato l’umanità sin da suoi albori e che ha, poi, trovato una forma più strutturata, con la nascita della scrittura, ad opera dei Sumeri, circa 5000 anni fa. Così anche la Bibbia, che ha conosciuto prima una fase orale frammentata e, infine, una fase scritta più complessa, confluita nell’attuale forma delle Sacre Scritture, rappresenta un tentativo di “raccontare”, cioè di dare un ordine ad “eventi religiosi” per poterne ricavare significati da consegnare alle generazioni future.

In questo ambito, rientrano anche i numerosi racconti dell’AT, in cui autori, di varie epoche e di varie estrazioni, si riferiscono a Dio con i nomi più svariati. In questo contesto ci limiteremo ad osservare quel nome che Dio stesso ha rivelato a Mosè. Questa speciale rivelazione, che meglio dovremmo chiamare auto-rivelazione visto che in Dio ha la sua origine, è “raccontata” nel libro dell’Esodo, e il nome rivelato è YHWH.

Ciò che sorprende, ma non dovrebbe sconvolgerci, è che già nella prima metà del II millennio a.C., quindi diversi secoli prima della stesura del libro dell’Esodo, questo titolo veniva impiegato nell’area confinante con l’Anatolia, per individuare una qualche divinità, il cui culto era essenzialmente legato alla fertilità. Questo dato potrebbe far sobbalzare alcuni, pronti a gridare ad una qualche forma di sincretismo religioso. In verità, questo elemento non solo è comprensibile nella logica dell’inculturazione, ma testimonia anche lo sforzo dei nostri fratelli nella fede di creare “percorsi identitari”. Gli Israeliti, infatti, sono un popolo realmente esistito, che ha vissuto a stretto contatto con altri popoli, che vivevano esperienze religiose completamente diverse da loro. Se, dunque, gli autori sacri hanno “preso in prestito” il nome YHWH ciò significa che questi avevano una buona familiarità con l’ambiente che li circondava. Ma, bisogna aggiungere, che questi non mancavano affatto di creatività! Gli Israeliti, infatti, per “narrare” le origini della propria fede, impiegano questo nome YHWH, dando ad esso una connotazione diversa e più specifica.

Nel capitolo 3 del libro dell’Esodo, troviamo tutta la dinamica della rivelazione del nome divino. In particolar modo, in Es 3,13-14, alla richiesta di Mosè di voler sapere il nome di quel Dio che lo vorrebbe presso gli Egiziani a difendere il suo popolo, Dio stesso risponderà: “‘ehyeh asher ‘ehyeh” (spesso mal tradotta con “io sono colui che sono”). In realtà, analizzando questa espressione, dal punto di vista sintattico, non ci troviamo innanzi ad un vero “nome”, ma alla condizione di possibilità di una relazione. L’espressione, infatti, nasce dal verbo “essere” che, nella particolare forma grammaticale assunta in questo caso, mantiene insieme il tempo verbale presente e futuro. Ci troviamo, qui, innanzi alla rivelazione di un “mistero” la cui portata può essere colta, soltanto se diamo uno sguardo d’insieme all’intero capitolo. A partire dal v. 4, questo Dio si fa conoscere come un Dio delle relazioni, capace di entrare nella storia degli uomini e del suo popolo. In qualche modo, rimane traccia di quelle antiche divinità, venerate in merito alla fecondità. Ma, in questo caso, la fecondità di questa “nuova” divinità di Israele è tutta sui generis: si tratta di un Dio che feconda tutta la storia dell’umanità. Infatti, questa divinità non è statica, ma ascolta, vede, sente e conosce il dolore del proprio popolo e ne prova compassione. Si tratta di un Dio che è mosso a compassione, che interviene attivamente perché il suo popolo abbia in dono la libertà e che chiede la collaborazione dell’uomo stesso, in particolar modo di Mosè. Questo ci consente di comprendere come YHWH non sia un vero nome, ma la condizione di possibilità della relazione dell’uomo con Dio, che ha in Dio stesso la sua sorgente e la sua continua fecondità.

Nel NT, in particolare nel vangelo di Giovanni, questa formula ritorna per quattro volte, stavolta applicata a Gesù. Due sono le espressioni più note. La prima è in Gv 8,58, “Prima che Abramo fosse, Io sono”, a cui si associa Gv 8,24: “Se non credete che Io sono, morirete nei vostri peccati”. Inoltre, a queste, se ne affiancano anche altre: ai discepoli spaventati di vedere Gesù camminare sulle acque, questi risponde: “Sono io, non temete” (cfr. Gv 6,20) e a quanti erano andati al Getsemani per arrestarlo, risponde: “Sono io” (cfr. Gv 18,6). Per molto tempo, queste formule sono state considerate come il tentativo di Giovanni l’evangelista di identificare Gesù con Dio. Se questo aspetto non può essere ignorato, bisogna, però, anche considerare che esse non tradiscono il tratto relazionale, evidente già nel libro dell’Esodo. Infatti, in numerosi altri brani del vangelo di Giovanni, Gesù si presenta come “Io sono il Pane della Vita” (6,35-51), “Io sono la luce del mondo” (8,12), “Io sono la porta delle pecore” (10,7-9), “Io sono il buon Pastore” (10,11-14), “Io sono la Resurrezione e la vita” (11,25), “Io sono la Via, la Verità e la Vita” (14,6), “Io sono la vera vite” (15,1-5). Qui non assistiamo ad una “riduzione” di Gesù ad alcuni stati o fenomeni, ma ad una sorta di ulteriore spiegazione di chi sia Dio e chi sia Gesù. Il Dio, che si manifesta nel Bambino di Nazareth e che è innalzato sulla croce, che risorge e appare ai suoi continua a farsi conoscere come il Dio delle relazioni generative di vita nuova.

Non potendo condensare né Dio né Gesù in una formula astratta, pronunciata una volta e per sempre, perennemente identica a se stessa e afferrata dalla ragionevolezza dell’uomo, gli autori umani dell’AT e del NT mostrano l’identità di Dio a partire dalle sue azioni. E, in ogni caso, si tratta di azioni “allo-centrate”, ovvero di azioni che vedono Dio spostare il baricentro dalla propria divinità all’umanità, da amare, liberare e salvare.